Il sesso, il genere, i pronomi e la loro non coincidenza

Se dovessimo elaborare una definizione di donna, probabilmente tutto ciò che diremmo rientra o contamina quella di femmina. Il ragionamento è analogo per la definizione di uomo. In termini puramente biologici (ma anche qui il discorso è sensibilmente più complesso del misero sistema binario cui una gran parte di persone è pigramente usa e della spicciola spiegazione di un dizionario), un cariotipo euploide che presenti una doppia copia del cromosoma X corrisponde a una femmina di Homo sapiens. Viceversa, un emizigote è un maschio della stessa specie.
Numerose, pressoché infinite, sono le possibili varianti ed estensioni che riguardano i cromosomi cosiddetti sessuali, ma questo articolo non presume di spingersi più a fondo della distruzione del fallace, perché tutto ciò che è vero, naturale ed esperibile nell’individualità del singolo è di per sé incontestabile per una persona di scienza, figuriamoci per un topo di biblioteca. Ebbene, la questione è la seguente: il genere, eccetto che come banale convenzione che forza la molteplicità dell’esistenza dentro una scatola, non esiste; non solo, a rigore di lessico, il suo spettro cangiante andrebbe meticolosamente discreto da quello del sesso (altresì da considerarsi come genetico, gonadico e morfologico). Non sono tavole dalle molteplici gradazioni di grigi, tra il bianco e nero, in cui è sufficiente indicare il colore che più ci calza a pennello, bensì, due affluenti del medesimo fiume.
La tanto chiamata in causa (e ottusa, diremmo) semplicità discorsiva che tenta di raccogliere in un bicchiere tutta l’acqua del pianeta Terra, quando insorgono determinate difficoltà espressive, frutto sostanzialmente dell’ignoranza più accidiosa e degli intenti discriminatori con cui a monte è stata costruita la lingua, è prodotto diretto di quella pigrizia spirituale dell’individuo medio, che risulta perciò incapace di considerazione, empatia e agápē (laici e religiosi prendano entrambi nota) verso l’altro, e anzi; preferisce scadere a bestia esclusiva e feroce, del tutto discromatoptica alla luce del giorno. Spesso il morbo si genera per mancanza di amor proprio, piuttosto che altrui.
Ma veniamo alla parte più metaforica. L’acqua ci occorre bene in aiuto perché sua caratteristica fondamentale è la fluidità. Spesso e volentieri, infatti, per qualche cagione controversa che ignoriamo completamente (e che, in tutta franchezza, nemmeno aspiriamo a conoscere, in quanto radice di una pianta molto più che maligna), una volta che un rivo novello ha scavato l’abbozzo dell’alveo, con l’intenzione di prosperare liberamente, esso viene invece rettificato a forza da argini che non derivano dalla sua operosità instancabile. Ora, che la si gabelli per una misura precauzionale, in vista di uno straripamento (improbabile, invero, in un’ottica di convivenza commensalistica), è la misera scusante con cui soffocare lo scandalo di un efferato delitto. Che cosa dunque, potrebbe opporvi una giovane creatura indifesa, cui già in origine viene negata la possibilità di essere in taluna maniera, ovvero quella che le è congenita, se non un’umile resa, poiché sprovvista dei toni e delle forze con cui dibattersi tra le grinfie assassine dei propri soverchiatori?

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